4WuZHVegXm1cjf7tl8WGMqKqxE0 LA FIAMMA DEL PECCATO: aprile 2013

martedì 30 aprile 2013

Let's get western! Maratona a Williamsburg

Senza mezzi termini, ho trovato il mio locale preferito a New York.
Si tratta di Videology, pub/videoteca che ha allestito una meravigliosa saletta di proiezione per passare serate all'insegna del grande cinema. E ogni martedì sera Movie Trivia!
L'occasione per andare in questo nuovo luogo di culto (e di futuro pellegrinaggio da parte mia, già lo sento...) è stata la presentazione del western ultraindipendente Dead Man's Burden, diretto da Jared Moshe. Per attirare il pubblico Videology e il regista del film hanno organizzato una vera e propria maratona western, cominciata a mezzogiorno e terminata all'una di notte inoltrata. In sequenza sono stato proiettati:

Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956) di John Ford
C'era una volta il West (Once Upon a Time in the West, 1968) di Sergio Leone
Il cavaliere della valle solitaria (Shane, 1953) di George Stevens
Winchester '73 (id., 1950) di Anthony Mann
Dead Man's Burden (2013) di Jared Moshe
Gli spietati (Unforgiven, 1992) di Clint Eastwood

Se un minimo come me siete appassionati di western, avreste ripercorso o quasi tutta la grande storia di questo genere. Moshe ha presentato ognuno di questi film e ha spiegato perché lo ha inserito nella lista. Alla fine del suo lungoemtraggio c'è stato poi anche il classico dibattito col publbico (purtroppo non troppo numeroso, ahimé...), in cui il regista ha spiegato che in realtà c'era anche un settimo film nella lista, Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) di Sam Peckinpah - e vorrei anche vedere!!! - ma che è stato costretto a tagliarlo per motivi di tempo.
Considerato che Gli spietati è fuori classifica perché lo amo troppo, il film che mi ha emozionato di più è stato Sentieri selvaggi: la Monument Valley come set viene adoperata da John Ford in maniera incredibile, e l'ultima inquadratura di Ethan Edwards/John Wayne che si allontana ripreso da dentro la casa ancora oggi da i brividi, ma brividi veri! Il più brioso e divertente è stato senza dubbio Winchester '73, una sceneggiatura pazzoide ma ritmata alla perfezione. Del film di Leone, come ogni volta che lo vedo, ho adorato il grandissimo Cheyenne di Jason Robards e la sensualità strabordante di Claudia Cardinale, una vera e propria dea in questo film.
Il culmine della serata per me è stato proprio alla fine, quando sono rimasto solo nella saletta a vedermi per l'ennesima volta Unforgiven. A un certo punto il barman è entrato e, come premio per la mia lungimiranza - unico spettatore a vedere l'intera maratona, vero ORGOGLIO NERD!!! - mi ha offerto popcorn e birra gratis!

Alla fine sono rientrato a casa che erano le due passate, vagamente stanchino e, non posso negarlo, anche soavemente brillo. Ma prima di tutto totalmente felice per essermi fatto questa scorpacciata di grandissimo cinema e di aver scoperto Videology.

P.S. - Dopo aver (ri)visto Il cavaliere della valle solitaria mi sono accorto che in realtà Il cavaliere pallido (Pale Rider, 1985) di Eastwood ne è un remake non dichiarato. O lo è? In tal caso proprio non lo sapevo...






domenica 28 aprile 2013

Clint e l'ultima beffa del Tribeca



Il Tribeca Film Festival è terminato, e state pur certi che non ne sentirò la mancanza.
Qualità dei film piuttosto scarsa, a parte i pochi che vi ho segnalato nei post dei giorni scorsi. Possibilità di ottenere interviste praticamente nulla, se non partecipando alla baraonda dei red carpet, il che significa di solito spintonare i colleghi, ottenere riprese audio e sonoro non ottimali e parlare con attori e registi per pochi, confusi secondi.
Poi, soprattutto, per fare un red carpet bisogna essere intraprendenti, briosi e avere un minimo di faccia tosta, qualità che a me mancano del tutto.
Dal momento che il tappeto rosso di ieri pomeriggio sarebbe stato attraversato da un certo Clint Eastwood, mi sono forzato a chiedere di poter partecipare. Quando la mail di risposta con la disponibilità è arrivata solo cinque minuti dopo la mia richiesta avrei già dovuto insospettirmi. Come mai la stessa organizzazione festivaliera che mi ha concesso soltanto un'intervista in tutta la kermesse mi lascia poi andare all'evento più prestigioso? L'avrei scoperto il mattino dopo, a mie spese...
Check-in della stampa alle 13:00, poi tre quarti d'ora per aspettare che i talent inizino a percorrere il tappeto rosso e fermarsi per le interviste. Io, come da prassi, arrivo alle 12:40, e vi assicuro che per i miei standard è un anticipo anche contenuto...
Mi assegnano il mio posticino dietro la balaustra bianca, accanto a una coppia di colleghi israeliani con cui iniziamo una bella chiecchierata su Clint Eastwood, Darren Aronofski (entrambi devono partecipare a questo incontro col pubblico) e il loro cinema. Man mano che si avvicina l'ora dei primi arrivi comincio a essere più teso, non avendo mai fatto questo tipo di interviste d'assalto, diciamo così. Ricontrollo dieci volte il mio iPad per fare il video, ripasso le domande da fare ai due cineasti ed evetuali "generiche" per altre possibili celebrità che si fermeranno a chiacchierare con noi. Inizio ad essere talmente nervoso che quando arriva la notizia che si tarderà qualche minuto sono quasi sollevato. Anche se è quasi un'ora che sto fermo in piedi e la schiena comincia a scricchiolare. Sapete, non sono più un ventenne. E comunque mi scricchiolava già a quell'età...
Un altro indizio che mi avrebbe dovuto far capire che tutto sarebbe andato storto è che sul red carpet ieri di giornalisti ce n'erano davvero pochini: almeno metà del corridoio era vuoto, e noi eravamo stati spostati e ammassati tutti nella prima parte. Un collega mi ha giustamente fatto notare che il festival stava finendo, e per di più si trattava di un bel sabato di sole. Perché passarlo ad aspettare ore per fare se va bene due minuti d'intervista? Domanda tutt'altro che retorica...

Alle 14:00 circa una delle assitenti dell'ufficio stampa del Tribeca ci viene a dire che Mr. Eastwood arriverà probabilmente verso le 15:00 (!!!) e non è sicuro si fermi a fare né le interviste né il photocall, visto il ritardo.
Bene. Perfetto.
Io comunque decido di aspettare, perché anche una frase scambiata al volo con una leggenda come lui merita il sacrificio, almeno per me. L'ho già incontrato lo scorso settembre quando ha presentato Trouble With the Curve, e posso assicurarvi che è così.
Però un conto è non fermarsi con la stampa, un conto è sbucare all'improvviso da una porta di servizio e percorrere di corsa il red carpet. Questo è successo verso le 14:50, quando Clint Eastwood, accompagnato da pochi membri dello staff, ha non troppo simpaticamente snobbato chi stava in piedi da circa due ore ad aspettare di incontrarlo. Per carità, niente di tragico, in questo mestiere sono cose che capitano. Alla fine l'unica cosa che sono riuscito a fare sono le due fotografie che vedete in questo post.
Passato Eastwood in maniera così repentina (prego leggere la frase con una punta di sarcasmo...), molti colleghi si sono diretti a protestare con le publicist, che si rimpicciolivano piuttosto imbarazzate e adducevano la scusa che, visto il tremendo ritardo, Clint proprio non poteva fermarsi.
- Ma almeno Darren Aronofski? Chiede una giornalista.
- Dovrebbe arrivare tra circa mezz'ora...
- E Eastwood allora non poteva fermarsi se comunque doveva aspettare Aronofski?
Silenzio imbarazzato
- Ma Darren si fermerà a parlare coi giornalisti?
- Non posso assicurarvelo...
Di sicuro con me Darren non avrebbe parlato. Non ho neppure lasciato che la ragazza finisse la frase: ero già diretto verso la metro.
Questo è stato l'ultimo atto di diceci giorni di tribeca Film Festival.
Speriamo nel prossimo anno. Perché tanto, già lo so, io ci ricascherò e parteciperò entusiasta...






giovedì 25 aprile 2013

Tribeca Day 8 - Ancora delusioni a New York...

Se nei giorni scorsi il Tribeca Film Festival aveva messo in programma film in cui bastavano in fondo le interpretazioni di alcuni ottimi attori a tenere a galla le sorti dei loro rispettivi lungometraggi, la giornata di oggi ci ha invece proposto prodotti che neppure nomi piuttosto altisonanti sono riusciti a salvare dalla bocciatura.

The English Teacher di Craig Zisk avrebbe potuto essere un altro piccolo ritratto al vetriolo sul sistema scolastico americano, magari sulla scia comica di Bad Teacher, e invece si dipana come un'operetta moraleggiante e piena di caratteri banali. Julianne Moore come protagonista è imprigionata in un personaggio che abbiamo visto così carastterizzato centinaia di volte, con tanto di catarsi finale alla camomilla. Accanto a lei Greg Kinnear, Michael Angarano, Lily Collins e un Nathan Lane che ancora una volta scimmiotta se stesso. La monotonia delle situazioni e dello sviluppo narrativo sprofondano ben presto il film nella noia, da dove ahimé non si risolleva mai.


Tanto meglio non è andata con A Single Shot di David M. Rosenthal, thriller di provincia che mescola nella trama e nei toni Un gelido inverno, Non è un paese per vecchi e Soldi sporchi, piccolo grande gioiello semidimenticato di Sam Raimi. L'eccessiva lentenzza a verbosità delle scene impantanano il film in un ritmo a tratti abbastanza insostenibile, che affievolisce anche i momenti che avrebbero dovuto essere più tesi. Si arriva così allo showdown finale in maniera prevedibile e stanca. Il cast è ancora più impressionante di The English Teacher: in A Single Shot troviamo infatti Sam Rockwell, Kelly Reilly, Jason Isaacs, William H. Macy, Jeffrey Wright, Ophelia Lovibond e Ted Levine. Ognuno di questi talentuosi attori ha dato il meglio altrove, non certo in questo film sfilacciato e lentissimo.

mercoledì 24 aprile 2013

Tribeca Day 7 - Rumble em', young man, rumble em'!


Un solo documentario visto oggi al Tribeca Film Festival, ma di quelli che lasciano il segno. Eccome se lo lasciano.
Diretto da Bill Siegel, The Trials of Muhammad Ali racconta principalmente la battaglia legale del pugile afroamericano contro il governo americano in seguito al suo rifiuto verso l'obbligo del servizio militare che nel 1967 lo avrebbe spedito a combattere in Vietnam. Arrestato, non incarcerato, Ali si vide togliere lo scettro di campione del mondo dei pesi massimi vinto contro Sonny Liston nel 1964 e non potè combattere per ben quattro anni, proprio nel momento migliore della sua carriera.
La forza di questo documentario sta nel descrivere con pienezza un momento storico in cui la lotta per i diritti civili degli afroamericani era nel suo momento culminante. L'adesione di Ali all'islamismo, la sua amicizia e comunione di vedute con Malcolm X, che poi "abbandonerà" dopo l'allontanamento di quest'ultimo dalla dottrina di Elijah Mohammed. Per una volta il lato sportivo della vita di Muhammad Ali è tenuto in secondo piano, anche se ovviamente presente. Il campione viene raccontato come figura fondamentale di un movimento di liberazione e presa di coscienza che ha segnato un momento di svolta fondamentale nella società civile statunitense.
Non siamo ai livelli di Quando eravamo re di Leon Gast - quel documantario sportivo è praticamente inarrivabile a mio avviso, e comunque era incentrato su un'altro aspetto della figura del campione - ma The Trials of Muhammad Ali rappresenta un altro tassello importante per conoscere o/e ricordare una delle figure più importanti del XX secolo, un esempio di come lo sport possa trascendere il mero significato della competizione per diventare simbolo di molto, molto altro.
Ho trovato questo bell'omaggio ad Ali su YouTube. Gustatevelo.



martedì 23 aprile 2013

Tribeca Day 6 - Un giorno di musica e basket.

Piccola ma gradita sorpresa musicale quella che mi è arrivata oggi da Greetings from Tim Buckley. Mi aspettavo un biopic sulla vita e la tragica fine del cantante Jeff Buckley e invece mi sono trovato di fronte a un film intimo, il quale più di una storia precisa racconta il filo ideale ed emotivo che legava il ragazzo a suo padre Tim, anche lui famoso autore musicale. La New York degli anni '90 ricostruita sapientemente con poche, malinconiche pennellate dal regista Daniel Algrand. Un carattere schivo ma pieno di energia, il rapporto conflittuale con un genitore famoso ma assente, praticamente mai incontrato, morto tra l'altro anch'egli giovanissimo. Il senso di mancanza sommesso ma inarrestabile: questo racconta Greetings From Tim Buckley, costruito anche attraverso sapienti flashback che tratteggiano in maniera limpida alnche il carattere fragile e aperto di Tim. Film di rimandi, con una trama finissima ma non superficiale, costruita a un concerto/commemorazione della musica di Tim Buckley. Bravo il protagonista Penn Padgley (Gossip Girl in TV, Margin Call) a disegnare la vita interiore di Jeff con pochi tratti e molti silenzi. Bella e ariosa la sua partner Imogen Poots (Fright Night, A Late Quartet).  Su tutto però la bellissima musica dei due cantautori, capace di andare dritta la cuore dello spettatore.

Il sogno americano possiede una grande verità: se non hai le doti necessarie per prendertelo e soprattutto gestirlo, può tramutarsi in un incubo in men che non si dica. Questo racconta in sintesi il bel documentario Lenny Cooke, incentrato su un giovane giocatore di basket che al liceo era quotato più di qualsiasi altro ragazzo negli Stati Uniti, più di coetanei quali Carmelo Anthony e "The Chosen One" LeBron James, che oggi sono star dell'NBA e guadagnano valanghe di bigliettoni versi. Una situazione familiare disagiata, la fretta di accaparrare tutto e subito, l'allucinazione dei dollari ottenuti solo col talento, ed ecco che al draft che avrebbe dovuto vederlo protagonista Lenny Cooke si è invece visto clamorosamente scartato, finendo a giocare in università anonime e con una carriera miserrima. A trent'anni Cooke ha problemi di denaro, di peso e vive soprattutto col tremendo rimpianto di aver gettato via un talento che avrebbe potuto fruttagli tutto. Diretto da Ben e Joshua Safdie, Lenny Cooke è uno ritratto impietoso ma sincero di un uomo debole, incapace di gestire le situazioni. La metafora è magari anche un po' troppo scoperta, ma l'eficacia delle immagini è indubbia: la festa per il 30mo compleanno di Lenny, celebrata dentro una casa/baracca con bicchieri di plastica e dolci da pochi dollari è un momento decisamente toccante. Per chi come me vive di basket ed è interessato anche ai suoi risvolti meno edificanti, non soltanto ai lustrini e alle schiacciate ad effetto.


lunedì 22 aprile 2013

Tribeca Day 5 - Il grande ritorno di Neil LaBute

Era dai tempi del clamoroso esordio de Nella società degli uomini che Neil LaBute non realizzava un'opera cosí meticolosa e dura nell'esplorare la psicologia umana. L'idea di base del suo nuovo Some Velvet Morning è tanto semplice quanto tagliente. Una giovane donna, la visita inaspettata di un suo ex amante, una mattina spesa dentro casa in un gioco al massacro emotivo e psicologico. Niente fronzoli, nessuna concessione allo spettacolo, soltanto la realtà e la crudezza della condizione umana. Un grandioso Stanley Tucci (poteva essere altrimenti?) e la sorprendetente Alice Eve portano sulle spalle questo film da camera preciso, doloroso ed elegante. Ancora una volta il cinema di LaBute racconta che l'uomo è un essere sostanzialmente immaturo, feroce, votato all'autodistruzione quando si tratta di gestire i sentimenti. E la donna, anche nei momenti di massima frustrazione o fragilità, rimane comunque più lucida e controllata. A mio avviso una grande verità.

Del resto della quinta giornata del Tribeca Film Festival tutto o quasi è da buttare. Justin Long, in veste  di sceneggiatore e protagonista, si cuce fin troppo addosso il ruolo in A Case of You, commedia romantica tutta quasi ambientata a Williamsburg, il quartiere più "fichetto" di Brooklyn. Perché non tentare invece di uscire dagli schemi del giovane romantico e un po' goffo che tenta di conquistare la bella che crede inarrivabile? Quante volte l'abbiamo visto interpretare a Long? Anche perché stavolta a forza di accumulare troppe scene che ne mostrano l'inettitudine si finisce per reputare il suo personaggio più un cretino che un simpatico sprovveduto. Comunque sia, il film di Cat Koiro ha almeno il pregio di rendere più simpatica del solito Evan Rachel Wood. Cammeo sempre gustosissimo di Vince Vaugh, così come quello dell'impareggiabile Peter Dinklage.

Nient'altro che imbarazzante The Moment di Jane Weinstock. Dramma psicologico che sfocia ne thriller e vede coinvolte una fotografa di guerra, sua figlia e un ex-detenuto rinchiuso ingiustamente in carcere per cinque anni. Jennifer Jason Leigh è insostenibile nella parte principale, imbalsamata in un'espressione corrucciata che la rende ancora più antipatica del solito. Poco, ma davvero poco meglio fanno i pur scarsi Martin Henderson e Alia Shawkat. Melodramma polpettoso, flashback e costruzione narrativa a salti inutile, anzi dannosa, caratterizzazioni psicologiche e messa in scena rivedibile a voler essere buoni. Sarebbe stato meglio non presentarlo al Festival, ha abbassato da solo una media già non esaltante...

Ultimo lungometraggio di giornata il tedesco-irlandese Run and Jump di Steph Green, versione strampalata di Little Miss Sunshine, o almeno così a me è sembrato. Non completamente da buttare ma indeciso su che via prendere, quella della commedia gentile o del dramma a tinte forti. La seconda parte è poi estremamente dilatata e annacqua i toni e la bontà di scrittura di alcuni personaggi. Tra gli attori quel Will Forte che molti di noi amano al Saturday Night Live.


domenica 21 aprile 2013

Tribeca Day 4 - Naomi e le altre donne del festival

La quarta giornata del Tribeca Film Festival 2013 si è aperta con la bellissima sorpresa di Sunlight Jr. di Laurie Collyer, che qualche hanno fa ci aveva già regalato l'interessante Sherrybaby con Maggie Gyllenhaal. Sullo sfondo della perferia di una città della Florida si muove la vita di Melissa e Richie, coppia di dropout non più giovanissima. Lei con un passato di dipendenza dalle droghe lavora come cassiera in un mall, lui è costretto sulla sedia a rotelle e passa il tempo girovagando senza meta. I due si amano sinceramente, e quando arriva la notizia di un imminente bambino tentano di tutto per garantirgli una vita degna. Ma uscire dall'insicurezza e dalla povertà in America non è facile...
Bello spaccato di vita, mai pietistico o ricattatorio, tutt'altro. La sincerità dei personaggi e la delicatezza del racconto convincono in pieno, e proprio perché non eccessivamente drammatico Sunlight Jr. è ancora più toccante e preciso nel raccontare le difficoltà ma anche la voglia di vivere di chi sta in fondo alla scala sociale. Notevolissima prova d'attori per Matt Dillon, misuratissimo, e soprattutto per Naomi Watts: a quarantaquattro anni é senza dubbio l'attrice più sexy di Hollywood, coraggiosa e vera quando deve esporsi ma sempre incredibilmente misurata. La Watts è una grande attrice drammatica perché riesce a non esagerare mai, in qualsiasi parte o situazione si trovi a recitare. Un pregio raro e preziosissimo.

Secondo film di giornata la commedia drammatica The Pretty One dell'esordiente Jenée LaMarque. Protagonista quella Zoe Kazan che abbiamo già apprezzato anche in Italia con Ruby Sparks. Difficile raccontare la trama senza cadere nello spoiler, quindi vi diremo soltanto che si tratta di una storia d'amore, di scambio di personalità, di accettazione del lutto e di molto altro. Alcune trovate sono molto divertenti, altre dolcissime, la Kazan è naturalmente simpatica e perfetta per il ruolo, anche se già sembra stia cadendo un po' nel cliché modaiolo/svampito in cui è precipitata ad esempio Zooey Deschanel, con mio tragico disappunto. Per fortunaZoe sembra avere anche qualcosa in comune con il talento di Lena Dunham, quella di Tiny Furniture e Girls, così  la speranza di staccarsi dalla retorica del "tipo fisso" ancora esiste. Staremo a vedere. Intanto The Pretty One la conferma come probabile promessa, vera forza di questo film carino insieme proprio a quel Jake Johnson che divide con la Deschanel la serie TV New Girl. Strani incroci.

Terzo e ultimo film del giorno Trust Me, secondo film da regista dell'attore Clark Gregg dopo il non riuscito Soffocare, tratto dal bel romanzo di Chuck Palahniuk. Stavolta siamo alle prese con un agente hollywoodiano che come ultima speranza di affermazione si lancia su una giovanissima di sicuro talento, pronto a vedere la sua anima per farle firmare un contratto per una saga sci-fi stile Twilight. Tra concorrenza spietata, produttrici-squalo e intrighi romantici, l'agente dovrà perdere e ritrovare se stesso per riuscire (o meno) nel proprio intento. Strano film Trust Me: è un ritratto spietato del mondo che gravita dietro i riflettori e i lustrini dello star syste, impetoso e poi subito dopo superficiale. La trama è interessante ma si perde a tratti in inutili colpi di scena nel finale. Cregg è volenteroso ma come regista sembra abbastanza acerbo. A sollevare le sorti del film un cast di donne meraviglioso: Felicity Huffman, la mia adorata Allison Janney (bravissima in due o tre scene al massimo) e una magnifica Amanda Peet, finalmente con un ruolo significativo in un lungometraggio. Anche se ondivago, forse un po' troppo, Trust Me non merita di essere bocciato poiché possiede un suo indecifrabile fascino.



sabato 20 aprile 2013

Tribeca Day 3 - Nel segno di Melissa

Soltanto due i lungometraggi visti oggi al Tribeca Film Festival, in una giornata abbastanza interlocutoria per numero di film in programmazione. Quello della mattina è stato l'intessante Bottled Up di Enid Zentelis, ennesimo film ambientato nella provincia americana ma costruito in maniera piú fresca ed originale di quelli che abbiamo visto fino ad oggi. La vicenda ruota intorno a un triangolo a dir poco bizzarro: Faye è la classica donna di mezza età con a carico sua figlia Sylvie, ragazza che dopo un incidente automobilistico continua a soffrire tremendi dolori alla schiena, i quali la costringono all'uso continuo di farmaci. Quando la donna decide di prendere come coinquilino l'affascinante ecologista Becket, l'atmosfera dentro la loro casa cambia radicalmente.
Poverissimo dal punto di vista puramente estetico - il film è girato in ambientazioni fin troppo dimesse e in un digitale di fattura poco piú che amatoriale - Bottled Up ha però una storia non convenzionale, che descrive un rapporto madre-figlia in maniera piuttosto realistica. La negazione/consapevolezza che lega Faye alla problematica Sylvie è un sentimento ambivalente sviluppato con intelligenza. Il dramma leggero procede con discreta progressione, fino al bel finale per nulla scontato. Merito dell'efficacia del film va poi ovviamente attribuito alla performance della protagonista Melissa Leo, che nell'interpretare per l'ennsima volta una madre varia tono e fornisce una prova come al solito maiuscola. Anche nei momenti in cui il suo personaggio deve mostrare sia maturità che una soffusa carica erotica, la Leo convince in pieno. Bravina anche la giovane Marin Ireland nei panni non facili di Sylvie. Bottled Up è dunque un film riuscito, che si poggia soprattutto sulla buona definizione psicologica dei caratteri e sulla prova delle due attrici.

Davvero pessimo invece il secondo film della giornata, il presunto horror di Karl Mueller Mr. Jones. Provate a immaginare il solito sottogenere "cabin in the woods" che però parte come un film che si ispira al cinema di Terrence Malick (sob...) per poi trasformarsi senza alcun motivo valido in un'opera che scimmiotta involontariamente il lavoro di David Lynch. Senza capo né coda, con una trama che solo nella prima mezz'ora è minimamente logica, Mr. Jones naufraga nel meta-cinema con una presunzione che, a mio avviso, le opere no-budget non dovrebbero mai possedere.

Questo lo scarno bottino del terzo giorno qui a New York. Domani il programma dovrebbe riservare prodotti più consistenti. Stay tuned!

venerdì 19 aprile 2013

Tribeca Day 2 - La conferma Giamatti, la sorpresa Roberts

Il secondo giorno del Tribeca Film Festival 2013 non ha regalato perle come Before Midnight, visto e amato ieri. Quattro i lungometraggi di oggi, nessuno particolarmente esaltante, anzi. Però degli spunti interessanti ci sono stati, andiamo a raccontarli in ordine cronologico.

Il primo film di oggi è stato il franco-irlandese Dark Touch, sorta di Carrie in versione fanciullesca e non adolescenziale, ambientato nelle campagne dell'Irlanda. Bruttino. La regista Marina de Van conferma fin da subito di avere un discreto occhio per le atmosfere e l'eleganza autunnale delle immagini, ma altrettanto in fretta dimostra anche di abusarne. Il film è basato poi su una trama prevedibile nella prima parte, illogica nella seconda. Anche il minimo accenno di messaggio sociale contro la violeza familiare sui bambini è gettato dentro un calderone che mescola dramma e horror senza trovare mai il bandolo della matassa. Film già visto nella storia e presuntuoso nella messa in scena.

Il secondo lungoemtraggio della giornata è stato il per me attesissimo Almost Christmas di Phil Morrison, che vede protagonisti Paul Giamatti, Paul Rudd e Sally Hawkins. Si tratta principalmente di un buddy-movie dolceamaro su due ex-ladri canadesi che per sbarcare il lunario decidono di venire a New York a vendere alberi di Natale. Niente di nuovo nello sviluppo narrativo e nella psicologia dei personaggi. Tematiche risapute, alcune scene divertenti ma nel complesso film indipendente piuttosto "telefonato". A fare la differenza però sono i tre attori, perfettamente in parte. Paul Giamatti poi conferma la sua naturale predisposizione a passare dal registro comico a quello drammatico anche nella stessa inquadratura, pregio che pochissimi interpreti posseggono. C'è poco da fare, questo è un grande caratterista che riesce a impreziosire qualsiasi ruolo. Se il film merita comunque una segnalazione in positivo, è principalmente grazie a lui.

Nel pomeriggio è toccato al dramma provinciale Bluebird di Lance Edmands, che vede tra i protagonisti John "Mad Men" Slattery. La trama e l'ambientazione mi hanno ricordato vagamente un film bellissimo come Il dolce domani di Atom Egoyan. Dove in quel casoperò la messa in scena possedeva un equilibrio estetico incredibile, in questo film invece il regista ha ostentato eccessivamente la sua volontà di muoversi sotto le righe, regalando delle immagini "povere" che in alcuni casi mi sono sembrate posticce, soprattuto nell'uso delle luci. Un film non sbagliato ma neppure memorabile.

Ultima opera della giornata un'altra commedia, Adult World di Scott Coffey protagonista una giovane Emma Roberts che vuole diventare a tutti i costi una grande poetessa senza aver mai visto veramnete il mondo né averlo vissuto. Quando per arrivare a fine mese sarà costretta a lavorare in una videoteca porno allora dovrà per forza di cose confrontarsi con la realtà, anche riguardo il suo talento di scrittrice. Il film, ben ritmato anche se non originalissimo, è tenuto in piedi dalla sorpresa Emma Roberts, vera gemma di questa giornata. Spigliata, superficiale, frizzante, la sua Amy è un contrentrato di umorismo e ingenuità che conquista. L'attrice mostra finalmente delle doti comiche convincenti, che mi lasciano decisamente ben sperare per i suoi film futuri.

Questo il riassunto di una giornata tutto sommato non esaltante del TFF. A domani per la cronaca del festival.

giovedì 18 aprile 2013

Tribeca Day 1 - Jesse e Celine tornano a incantare.


Il primo titolo visto al Tribeca Film Festival 2013 - e comunque già passato all'ultimo Festival di Berlino - è stato Before Midnight di Richard Linklater, forse il titolo più atteso dell'intera rassegna.
Terzo capitolo delle avventure sentimentali di Jesse e Celine, è primo che li vede finalmente interagire come coppia consolidata, con tanto di magnifica prole - due gemelline. Dopo il romanticismo giovanile di Prima dell'alba e la verbosità un fin troppo spocchiosa del secondo Prima del tramonto (decisamente non l'ho amato...) Linklater, Julie Delpy ed Ethan Hawke trovano un commovente equilibrio in quest'ultimo film, dove la realtà della vita di coppia e dei problemi che essa comporta impreziosiscono ogni singolo dialogo. Finalmente i due protagonisti sono cresciuti, soffrono dei nostri stessi problemi, si confrontano tra loro in maniera sincera e, perché no, anche dolorosa. Nella cornice ovattata di un'isola del Peloponneso Jesse e Celine trascorrono giorni che dovrebbero essere incantanti, mentre invece nascondono le insicurezze e la fragilità tutta umana di chi non ha una vita perfetta. Situazioni e dialoghi, come al solito infiniti, sono però stavolta verissimi, pieni di ironia e calore umano. Si capisce fin dai primi minuti che Before Midnight è un film piú "caldo" e meno celebrale dei precedenti, e altrettanto bene si comprende che l'affiatamento tra regista e interpreti è come sempre ammirevole. Su tutti merita pieno elogio una Julie Delpy nevrotica, sincera, ironica come mai le era successo prima d'ora. È lei il cuore pulsante del film, con Hawke a farle perfetta spalla nelle scene più emozionanti. Dolcissimo e amaro allo stesso tempo, Before Midnight è promosso a pieni voti. Anzi pienissimi.

La prima giornata del Tribeca mi ha anche regalato la visione di VHS 2, divertente horror-contenitore a bassissimo budget, dove una cornice poco più che scritta a modo di canovaccio racchiude alcuni mini-cortometraggi che divagano in tutte le direzioni del genere, dalla possessione ai zombie all'invasione aliena. Poverissimo ma fantasioso. Interessante anche il docimentario olandese Raw Herring, che racconta la vita tutt'altro che comoda dei pescatori di aringhe.

mercoledì 17 aprile 2013

La risposta è: 42



Voto: 7/10

Sul dorso della mia mano destra pochi mesi fa ho impresso l'ultimo dei miei quattro tatuaggi: 91.
E' il numero di maglia di Dennis Rodman nei tre anni in cui ha giocato con i Chicago Bulls. Per me quel numero vuol dire una cosa soltanto: volontà. Chi come me ha visto giocare Rodman, a Chicago come a Detroit, ha visto una mente e un cuore che hanno saputo essere più grandi degli ostacoli tecnici o fisici che una gara ha loro meso di fronte.
Chiunque sia un vero appassionato di sport, di qualsiasi sport, vi racconterà che un numero di maglia significa davvero tanto per chi la indossa e per chi la ama dagli spalti o davanti alla TV.
Questo per introdurre 42, numero ben più leggendario del mio adorato 91. E' infati la maglia indossata da Jackie Robinson il 15 aprile 1947, quando esordì nella squadra di baseball dei Brooklyn Dodgers.
Il primo giocatore di colore a giocare nella Major League, sfidando e battendo il razzismo americano del Dopoguerra.
Ecco quindi i tre elementi di 42: 1 - Una leggenda sportiva. 2 - Lo sport più "filosofico" praticato in America. 3 - Un narratore come Brian Helgeland che quando vuole sa essere sopraffino. Per chi non lo ricrodasse ha scritto insieme a Curtis Hanson L.A.Confidential (Oscar per l'adattamento) e per Clint Eastwood Mystic River (solo nomination, ma la statuetta l'avrebbe strameritata). Bastano come biglietti da visita?
Con 42 Helgeland realizza quello che ogni cineasta mediamente talentuoso ma arguto avrebbe fatto: costruisce l'epica americana come il pubblico l'aspetta. La parabola di Robinson è cadenzata in maniera che più classica non si potrebbe, e per questo funziona a dovere. Poche sbavature, pochissime lentezze, alcuni momenti che inevitabilmente ti gonfiano il petto e ti fanno sentire fiero di vivere a Brooklyn, dove quegli eventi hanno avuto luogo. A completare l'opera un gruppo d'attori che incarnano i più classici volti e caratteri americani, con in testa un Harrison Ford (Branch Rickey, il team executive che volle a tutti i costi  Robinson ai Dodgers) che non mi sorprenderei di vedere in lizza per l'Oscar come non protagonista il prossimo anno.
Niente di nuovo sotto il sole si potrà obiettare al film, ma a mio avviso sarebbe un errore farlo: l'epica hollywoodiana non vuole novità ma pretende efficacia, fluidità, senso dello spettacolo capace di veicolare il messaggio. Perché, non dimentichiamocelo, 42 parla prima e soprattutto di razzismo e dello sportivo che ha osato sfidarlo su un campo fondamentale per la cultura e la società americana: il diamante del baseball. La grandezza del cinema statunitense è che anche quando vuole incensare i suoi eroi come è stato Jackie Robinson non ha paura di farlo raccontando il lato oscuro dell'american dream. 42 è dunque un film bello e importante, uno spettacolo edificante e sinceramente commovente. Quando uscirà in Italia andatevelo a vedere, conoscerete probabilmente un po' meglio la storia dello sport americano, e ne vale assolutamente la pena.

P.S. - Per un gioco di coincidenze, se si ribalta il numero 42 ne vien fuori 24, altro numero a me caro quanto pochissimi altri. E' la maglia di un campione assoluto, una mente di basket feroce quanto quella di Dennis Rodman, ma con un talento cristallino come quello di Michael Jordan. Un campione che merita di finire la propria carriera su un campo. Io ti aspetto Kobe.




domenica 14 aprile 2013

Disconnect. E se avessimo bisogno di sana retorica?





Voto 7/10

In un'epoca cinematografica (e non solo...) in cui quasi ogni discorso viene mescolato, centrifugato, sottomesso a nuove regole estetiche e narrative, non abbiamo perso forse qualcosa? Tipo la chiarezza e la linearità? Il dubbio potrebbe essere implausibile, per carità, ma non credo illegittimo.
Andando a vedere Disconnect mi sono trovato di fronte a un film a tesi, che la esplicita fin dalle prime scene senza temere di essere retorico: l'odierna civilità tecnologica, dove (non) si comunica attraverso l'oggetto invece che  attraverso il contatto umano, sta portando alla confusione e al distacco. Per raccontare questo, quattro storie di vita più o meno ordinaria si intrecciano sullo sfondo di un universo malinconico, quasi desolato nella sua freddezza. Esordio alla regia del documentarista Henry Alex Rubin, Disconnect si affida a una trama composita - scritta da Andrew Stern - che più degli sviluppi narrativi, quasi tutti comunque efficaci - vuole dipingere la tristezza pacata e rinunciataria di un'umanità apparentemente non più in grado di trovare e provare empatia. Ogni personaggio è presentato come solo, slegato, anche se si tratta di un padre, di un marito, di una figlia.
Tornando al punto di partenza non sarebbe improprio parlare di un film retorico, che vuole veicolare un messaggio attraverso un discorso filmico e narratologico anche didascalico. Il fatto però è che tale discorso colpisce, arriva al punto, soprattutto permette di riflettere. Forse essere "disconnessi" non consiste soltanto in esempi radicali di dipendenza da social network, tecnologia e via dicendo. Condito con una bella colonna sonora, lucido nel non cadere in risposte preconfezionate (la forza aventualmente è nelle domane che il film propone), Disconnect è un prodotto che merita una visione aperta e propositiva.
Forse la vera mancanza, il vero logorio dell'attitudine verso il prossimo è proprio nei piccoli gesti invece di quelli più eclatanti. Dove il film infatti colpisce maggiormente non è nelle scene-madre ma nella delineazione dei caratteri meno "forti", come quello del padre Rich Boyd che dopo essere caduto nel dramma tenta di ristabilire appunto una connessione col mondo che lo circonda. Non tutto funziona alla perfezione nel film - la storia che vede protagonisti Alexander e Paula Patton è decisamente meno efficace delle altre - ma la sincerità e il pudore con cui Rubin mette in scena la sua tesi sono ammirevoli e oinvolgenti.
Abbastanza efficace il cast, su cui svetta il mio "pupillo" Jason Bateman, qui alla sua prima prova realmente drammatica. L'attore c'è ed è sempre più bravo a dare anima all'uomo comune, cosa non tutti sono capaci di fare. A lui l'applauso più convinto.

Trailer di Disconnect


sabato 13 aprile 2013

Trance, just like a shallow grave...


Voto: 5/10

Uno dei punti di forza del cinema di Danny Boyle è sempre stato quello di possedere una leggerezza vitale e corrosiva, anche quando ha trattato temi e toni decisamente più forti. La capacità della sua idea di messa in scena di "giocare" col testo a disposizione gli ha permesso di muoversi con coraggio e una soffusa vena anarchica dentro equilibri precari ma affascinanti. Penso a Trainspotting prima di tutto, e non potrebbe essere altrimenti. Ma anche a 28 Giorni dopo, The Millionaire e 127 Ore.
Allo stesso tempo, la fragilità delle sue opere meno riuscite sta proprio nel fatto che Boyle, qualche volta, non sembra capire neppure lui quando e quanto prendersi sul serio.
Quest'ultimo Trance mi pare un esempio piuttosto lampante: si parte con una premessa che è quella del più classico heist-movie. Poi la si condisce con l'idea decisamente intrigante della terapia dell'ipnosi. Di bene in meglio.
Per la prima mezz'ora almeno, pur senza essere un film particolarmente originale, Trance si muove spigliato e sbarazzino, intrattenendo col solito gusto visivo di Boyle. Man mano che la storia procede si intuisce però l'idea rivedibile di voler complicare a tutti i costi la trama, principalmente riguardo ai rapporti tra i tre personaggi principali. Questo, seppur non particolarmente auspicabile, non sarebbe stato neppure esageratamente pesante se il regista contemporaneamente non avesse scelto di incupire inutilmente il tono del film. Mentre procediamo verso la (cervellotica) soluzione finale, Trance diventa un melodramma fosco e incoerente, pieno di cambi di prospettiva che in nessun modo sono giustificati dalla trama precedente. Perché? Perché non lasciarlo allo stato brioso e leggero con cui era partito? Boyle si scava la fossa nel voler problematizzare e rendere "serio" il suo film - procedimento stranamente contrario a quanto ha sempre fatto - quando invece finisce per pasticciarlo e appesantirlo oltre il dovuto. Quella che sembrava essere inziata come una scampagnata solare e ritmata finisce per essere una lugubre gita in luoghi oscuri.
Come al solito, l'ultima considerazione va agli attori, che ho trovato piuttosto innocui. A Vincent Cassell è stato affidato il ruolo del criminale anche violento che però possiede sia fascino che eleganza. BASTA!!! Un altra parte come questa e penso vincerà il tostapane come il Daniel Kaffee di Codice d'onore. James McAvoy è sempre simpatico e sempre inconsistente: la sua idea di "maturazione" per questo film sembrava quella di lasciarsi crescere delle basette rossiccie. Pochino. Rosario Dawson è come al solito mostruosamente sexy, ma è credibile come terapista dell'ipnosi quanto lo sono io come giocatore di basket: 1,76m per 103kg l'ultima volta che sono salito su una bilancia. Mi sono spiegato?
 Caro Danny, non aver paura di tornare ad essere leggero e gioiosamente irriverente! Mi riviene in mente un gioiellino di comicità corrosiva come Piccoli omicidi tra amici, se non sbaglio proprio l'esordio. Non si poteva tornare agli antipodi senza dover per forza complicare tutto con lo spessore? I film sono anche semplice, superficiale divertimento qualche volta. Proprio tu dovresti saperlo molto meglio di tanti altri...




venerdì 5 aprile 2013

Oblivion - Presentazione a Los Angeles


Nel weekend degli ultimi Oscar mi trovavo a Los Angeles non per seguire la premiazione ma per partecipare alla presentazione dell'attesissimo Oblivion, nuovo sci-fi movie interpretato dalla megastar Tom Cruise, da Morgan Freeman, Olga Kurylenko, Nicolaj Coster-Waldau e Andrea Riseborough (tenete a mente questo nome, ne sentirete parlare. Di sicuro su questo blog...).
All'interno dell'imponente Hangar 8, situato a Santa Monica, il regista Joseph Kosinski ha incontrato la stampa. La mia intervista potrete leggerla sul prossimo numero di The Cinema Show.
In occasione dell'evento mi è stato permesso dai publicist della Universal di scattare alcune foto del set allestito per l'evento, composto per la maggior parte dalle macchine costruite appositamente per Oblivion. Eccovi la piccola galleria fotografica.
Del film ho visto soltanto una mezz'oretta di scene selezionate: visivamente mi pare davvero impressionante. Vedremo.





























































































































lunedì 1 aprile 2013

"I'm fine, just win the game" - Hoop Dreams for Kevin

Lo scorso 31 marzo il mio amore ormai trentennale per il basket mi ha regalato nel giro di pochi minuti il peggio e successivamente il meglio che questo sport sa dare.
Lucas Oil Stadium, Indianapolis. Scontro diretto tra le università di Louisville e Duke per entrare nella Final Four del torneo NCAA, college basket. Cardinals vs. Blue Devils.
A circa cinque minuti dalla fine del primo tempo il ventenne Kevin Ware salta per ostacolare il tiro da tre di un avversario. Al momento di ritoccare terra la tibia e il perone della sua gamba destra si spezzano come due ramoscelli, senza che ci sia stato alcun impatto violento.
Per chi come me stava seguendo in diretta su Sky quella partita è stato un momento che difficilmente verrà dimenticato. Compagni in lacrime, avversari con le mani nei capelli, il silenzio pesantissimo di un'intera arena ammutolita. Anche professionisti veri come i commentatori della partita non sono riusciti o quasi a trattenere il dolore per quello che era appena successo.  
A un certo punto però noi telespettatori ci siamo accorti che c'era qualcuno che in quegli istanti terribili stava sorridendo, ed era proprio Kevin Ware. Stava cercando di tenere alto il morale dei suoi compagni, impegnati in quel match importantissimo. "Io sto bene, pensate a vincere la partita" le sue parole, ancora sdraiato a bordocampo. Incredibile: si sforzava di supportare coloro con cui stava condividendo molto più di un parquet. Perché, come ha dimostrato ieri questo ragazzo, lo sport quando praticato con dedizione sa creare comunione di intenti, spirito di sacrificio, attaccamento ai propri compagni e alla maglia uguale alla tua che anche loro indossano. C'è un detto bellissimo che appartiene al basket di college (cito a memoria): nell'NBA conta il nome che porti sulla schiena (il giocatore), al college quello che porti sul petto (il team). Il sorriso di Ware ieri notte ha reso il servigio più alto che un atleta possa tributare allo sport che pratica e ama.
Siccome questo è un blog che parla di cinema e tale vuole rimanere (anche se non soltanto), il mio personale omaggio a quel sorriso è la riproposizione di un grandissimo documentario dedicato al basket. Si tratta di Hoop Dreams, diretto nel 1994 da Steve James. Nelle quasi tre ore di durata del film viene raccontata la storia di due ragazzi, William Gates e Arthur Agee, teenager che vengono presi alla St. Joseph High school di Westchester, Illinois, dove giocano a basket con l'unico sogno di poter pestere un giorno i paequet dell'NBA. Da quel liceo, tanto per dire, è uscito uno dei grandi geni del basket moderno, quell'Isiah Thomas che è stato il "faro" dei Bad Boys di Detroit capaci di sconfiggere Michael Jordan, Magic Johnson e Larry Bird e vincere il titolo NBA nel 1989 e nel 1990. William e Arthur dunque, due giovani afroamericani accomunati dall'estrezione sociale - i sobborghi poveri di Chicago - ma differenti per tipo di gioco, abengazione, destino: uno di loro due infatti proprio al liceo subisce un brutto infortunio al ginocchio, che ne mina le possibilità di carriera. Quello che però Hoop Dreams ha raccontato con encomiabile sapienza è che l'amore per questo gioco e la volontà di andare oltre gli ostacoli può portare a grandi soddifazioni. Spesso a priscendere dal punteggio di una partita.
Sperando di rivedere Kevin Ware tornare a correre e saltare verso un canestro per i suoi Louisville Cardinals, vi consiglio quindi Hoop Dreams. Questo, come il sorriso di Kevin, è il cuore del basket.